NON TUTTO È FINE VITA: SALVAGUARDARE L’ASSISTENZA

elenaIl tema del fine vita è di quelli caldi e laceranti che riguardano una moltitudine di persone che convivono con la malattia. Ma la malattia e la condizione di vita che ne consegue ha molte sfaccettatura, molte sfumature e molte declinazioni. Accostare però il fine vita al caso di Welby a quello di Eluana Englaro non è corretto.Se per i primi due casi parliamo di persone che possono autodeterminarsi e battersi per una scelta, nel caso di Eluana parliamo, senza entrar nella vicenda della battaglia intrapresa dal padre, di persone con una coscienza alterata che vivono una condizione di difficoltà assieme ai loro cari. Qui non parliamo di fine vita. E’ una vita stabilizzata, con una prospettiva lunga, che coinvolge in Italia migliaia di persone con una forte spinta all’abbandono terapeutico. Di questo non si parla quasi mai. Di questo in un paese civile bisognerebbe parlare, discutere e legiferare. Perché la politica è inadempiente. E se lo è nella calendarizzazione dell’agenda sui temi etici e nelle proposte di legge, lo è nell’assistenza di queste persone (il documento finale del “Tavolo sugli stati vegetativi e di minima coscienza” di cui faccio parte presso il Ministero della Salute deve ancora essere presentato dopo mesi di lavoro ormai concluso).
Oggi a distanza di anni non abbiamo altro che la nostra Costituzione ad essere il “custode” a cui affidare la tutela dei nostri diritti e dei nostri principi. Ma che cosa dobbiamo salvaguardare?
Innanzitutto la cittadinanza delle persone in stato vegetativo, il sostegno della loro rete familiare, amicale e sociale che li circonda in ogni area geografica di appartenenza, per chè queste sono condizioni della famiglia e come tali vanno affrontate; non soltanto riconoscendo il valore della medicina, ma mettendo al centro dell’operare un’alleanza terapeutica tra: operatori sanitari e non, famiglia e volontariato.
Fare questo vuol dire intanto non contrapporre la dignità di fine vita alla tutela dell’assistenza, la libertà di scelta con l’impegno sociale. Riconoscere laicamente la vita in se stessa e non come qualcosa di incompleto che va sempre abbinato ad un aggettivo (“degna di essere vissuta”, altro…), ma una “vita senza aggettivi”. Per fare questo dovremo ribadire, e sempre più alzare il velo su queste persone e le loro famiglie. Capire che vedere, far conoscere, vuol dire anche riconoscere qualcosa che ci riguarda tutti: non solo le persone che vivono direttamente queste vicende, non solo il mondo sanitario e dell’associazionismo che le affronta, ma tutta la società civile che deve farsene carico in quanto le appartiene. Per questo riflettere sugli stili di vita, vuol dire sempre di più capire, come le famiglie dicono, che : “ non devono toglierci il nostro modo di vivere”; che il rapporto tra medico/ paziente/ famiglia deve essere ricomposto in quel patto di fiducia che sempre più fonda la nuova medicina; la necessità che qualcuno, in politica, oltre alle idee ci metta anche la faccia.
Ma dov’è il pensiero politico nella vita di chi convive con la malattia?
“La fortuna è cieca la sfiga ci vede benissimo” diceva l’amico Freak Antoni leader del rock demenziale. Ci vorrebbero politici che avessero un proprio caro in stato vegetativo o che andassero loro stessi in coma e magari si svegliassero avendo poi la forza di battersi per questo.
Ovviamente non auguro questo a nessuno, ma posso anch’io testimoniare in prima persona come il coma di mio figlio mi abbia indotto ad occuparmi di una condizione di vita che prima neanche conoscevo ed avevo considerato.

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